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Marchio Repubblica.it, distorsioni semantiche e malcostumi manageriali

I primi giorni di dicembre dello scorso anno, navigando sul loro sito come ogni mattina, ho notato che il marchio di laRepubblica.it era stato “normalizzato”, probabilmente per renderlo conforme alle caratteristiche e ai cambiamenti continui che il mercato digitale e non impone.
La versione del logotipo storico era stata rinnovata con l’aggiunta di una “pennellata” color azzurro sul “.it” e l’introduzione del payoff: “In diretta con l’Italia”. Appare evidente – anche ai non addetti ai lavori – la non piena pertinenza del messaggio contenuto nella frase, che dovrebbe sintetizzare verbalmente il posizionamento e la mission d’impresa.
In quell’occasione avevo commentato: “Ma questo payoff non racconta la marca… chi visita quotidianamente laRepubblica.it desidera rimanere in contatto con il mondo, perché gli demoliscono quest’aspirazione – invece di coltivarla – trasmettendo un messaggio così circoscritto?” Aggiungevo, comunque scettico: “Se hanno deciso così, avranno delle solide ragioni a supporto”.
Mi dimentico de laRepubblica e del suo contraltare digitale per qualche mese, ma l’altra mattina mentre sorseggio il mio caffè sfogliando virtualmente la rassegna stampa osservo la grande novità… un nuovo payoff: “Il mondo in diretta”! Come prevedibile, si è dunque trattato di un errore; una repentina virata oltreoceano che rappresenta formalmente un altro posizionamento. Repubblica.it, identità di marcaCome se non bastasse, a confondere il lettore, va ad aggiungersi un ulteriore elemento grafico nonché di senso: una targa che lambisce la parte inferiore del ”.it” e che riporta la scritta “24 ore su 24”. Una baraonda visiva e verbale che sovrappone simboli e informazioni, oltre appunto a sconfessare il discorso iniziato solo sei mesi prima.
Suppongo – anzi, lo auspico – che questa confusione generale sia frutto della decisione aziendale di procedere internamente con il progetto di restyling del marchio, invece che affidarsi a degli specialisti della brand identity.
Che il sospetto su laRepubblica.it sia fondato o meno non conta; l’episodio fa venire alla mente un malcostume manageriale duro a morire, che definirei self making brand. Una routine più diffusa di quello che si pensa nel nostro paese, dove molte società (di tutte le dimensioni) commettono la leggerezza di auto-commissionarsi la costruzione della propria marca. Risultato: convinzioni professionali infondate e imbarazzanti equivoci lessicali (il più diffuso, confondere immagine con identità) che finiscono per compromettere la correttezza del processo di lavoro producendo risultati delle volte catastrofici delle altre solo deboli. E se non si è in grado di creare un’impalcatura segnica e valoriale efficace, sarà meno agevole per le aziende ottimizzare il budget di comunicazione, sviluppare i propri brand e generare valore economico.
Chi intende fare la marca da sé si espone a rischi d’impresa ingiustificati, si addentra in un percorso minato che mette a repentaglio le performance economiche dell’azienda. Consigliabile essere più pragmatici e lungimiranti, preferendo la pianificazione strategica alle credenze popolari.